5 settembre | 31 ottobre 2020
Prefazione – Maternità: il dono della vita
di Nevia Capello
Quali implicazioni psicologiche, etiche, sociali ed economiche comporta una scelta di maternità? Grazia Colombo invita ad una riflessione su questo delicato argomento. Sociologa e studiosa di questi temi, sottolinea la necessità di un riconoscimento esplicito da parte dell’intera comunità sociale del valore della maternità, affermando: “La maternità nella nostra cultura non è sentita né considerata un fatto sociale. Ciò che comunemente si ritiene è che mettere al mondo un figlio sia una scelta personale e privata, innanzi tutto della donna, poi della coppia e poi semmai dei dintorno familiare. Non c’è affatto l’idea che se una donna mette al mondo un bambino lo faccia per tutti noi che siamo parte della comunità umana e che quindi in qualche modo ce ne dobbiamo far carico perché riceviamo comunque il dono di poterci rispecchiare nelle generazioni future, nei loro sogni e nel loro avvenire.”
In un paese come l’Italia, che da sempre ha esaltato e idealizzato la maternità e la nascita, manca un effettivo riconoscimento sociale dell’importanza di questo evento. Ad esempio, nella nostra cultura non esiste un segno o un rituale che accolga la nascita di un neonato nella comunità sociale. Abbiamo solo una burocratica iscrizione all’Anagrafe, oppure c’è il Battesimo, ma riguarda l’area religiosa.
Leggiamo tra le righe dell’Economist: “Quando la gente diventa più ricca, le famiglie diventano più piccole”. La denatalità è indubbiamente un fenomeno che si accompagna allo sviluppo economico in senso globale. Un fattore di decrescita umana a livello mondiale.
Dal 2008 si è manifestata però in Italia una timida ripresa della natalità, accompagnata da alcuni importanti cambiamenti strutturali determinati:
– da una forte “disomogeneità” tra le regioni: non ci troviamo più davanti ad un Sud prolifico e ad un Nord sterile, anzi in alcune regioni del Nord la fecondità è superiore a quella del Sud.
– Colpisce il progressivo “invecchiamento” delle madri la cui età media alla nascita del primo figlio, stabilizzata per lungo tempo intorno ai 25 anni, si è elevata alla media attuale di quasi 31 anni.
Fatta questa premessa, possiamo disvelare le ragioni che ci conducono ad una ricerca che avvia un progetto artistico intitolato “maternità”, indicandoci un percorso che si snoda tra le diverse tappe del linguaggio pittorico, da Giotto a Louise Bourgeois, evidenziando il ruolo materno.
La madre, guida solerte, fonte d’affetto, porto sicuro, può in taluni casi causare sofferenze, umiliazioni, distruggere la vita dei propri figli. Qualunque sia stato il rapporto con nostra madre, lei ha plasmato il nostro essere, influenzando la nostra personalità nel bene e nel male.
L’iconografia ci presenta la madre amata, assunta a modello di nostalgica tenerezza e dedizione. Nell’arte cristiana il rapporto madre-figlio si dispiega nell’immagine della Madonna con il Bambino. Dalle sacre icone (tipiche della Chiesa Ortodossa, dove il fondo oro invade la superficie) si esperimenta tra il XIII e XIV secolo un cambiamento rivoluzionario ad opera di Giotto.
Duecento anni prima dell’inizio ufficiale del Rinascimento, il pittore del Mugello toglie ai soggetti religiosi quella voluta staticità (sinonimo di santità) e ci inserisce un’umanità che tocca anche la Madonna con il Bambino.
Nella “Madonna con il Bambino ridente”, affrescata nel 1295 nella Basilica superiore di Assisi, egli raffigura uno dei primissimi sorrisi della storia dell’Arte.
Grandi artisti successivi, quali Piero della Francesca, Leonardo, Botticelli, Michelangelo, Raffaello, Tiziano, Rubens, tratteranno il soggetto interpretando univocamente il rapporto tra Maria e Gesù. Fra l’amore della madre e il dolore per il destino segnato del Cristo. Fino allo scandaloso dipinto del Caravaggio che dà alla Madonna i lineamenti di una cortigiana, da lui scelta come modella.
Il tema riproposto di continuo nel corso dei secoli successivi incontra una svolta decisiva alla fine dell’Ottocento, allorché con Chagall e Dalì l’arte si emancipa, si affranca dalla religione e approfondisce l’indagine sulla figura della madre intesa come essere umano.
“Maternità” Incentra la madre nel suo ruolo di educatrice, come nell’opera “Prime letture” di Plinio Nomellini, che fa riaffiorare nell’osservatore i ricordi della prima infanzia.
Precedentemente, nel 1872, l’impressionista Berthe Morisot aveva ritratto la sorella Edna china sulla culla. Nel quadro omonimo, lei è vigile protettrice della propria creatura, a riconferma dell’unico ruolo assegnatole dalla società dell’epoca, che tendeva a idealizzare la maternità.
Ma nel quotidiano, come accolgono un progetto di maternità le giovani d’oggi? Attraverso generazioni si è continuato a sottolineare la funzione procreativa della donna, considerandola fattrice degna di rispetto. Questo in quanto madre dei figli, che a lei spetta allevare ed educare. Quale dovizia di sentimenti, quale impegno profuso dalla donna in questo ruolo che le infonde forza ed autonomia, al di fuori delle conquiste del femminismo. Mondo di ieri. Mondo di oggi. Sul mercato globale c’è tanta miseria: per pochi spiccioli mamme complici e compiacenti vendono il corpo delle piccole figlie al turismo del sesso. La maternità entra inoltre in un gioco commerciale: si affitta la persona il cui utero ha la funzione di una incubatrice biologica, una macchina vera e propria. La gestazione viene monitorata dalle cliniche compiacenti fino a prodotto confezionato. La donna fattrice sta lì. In attesa di liberarsi da quel fardello che non è suo e che non considera suo.
Questa è la madre surrogata.
In tutto questo, dove sta l’amore? Le donne non hanno niente da dire? Possibile che tutte le lotte di emancipazione si riducano alla frase cult: “L’utero è mio e me lo gestisco come mi pare!” Anni di lotta per arrivare alla donna fattrice?
Riflettiamo un momento, al di là delle posizioni ideologiche, in che direzione si vuole andare. Ci fa riflettere anche Tamara de Lempicka nella sua interpretazione personale della maternità espressa nel dipinto omonimo del 1928. La pittrice, notoriamente trasgressiva, incurante delle norme sociali e morali, ci mostra la maternità come qualcosa di non voluto, anzi imposto.
A distanza di un secolo si ripropone un analogo atteggiamento di rifiuto a procreare in giovani donne che scelgono una condivisione di vita con il partner al di fuori del matrimonio, sottraendosi al ruolo materno ritenuto incompatibile con la vita sociale e con la loro crescita professionale. Non è un atto contro natura, né un eccesso di edonismo: la pandemia del corona-virus che ci tiene ancora nei suoi lacci, ce lo dimostra. Quante madri vivono quasi con un senso di colpa la dicotomia lavoro – famiglia, non riuscendo a risolvere il problema della cura dei figli, soprattutto se piccoli, ora che per ragioni di sicurezza la Scuola è chiusa.
Spetta al mondo della Politica garantire continuità alle nuove generazioni, dando nuovi impulsi a questa situazione di stallo con interventi mirati sul sociale. Spetta al mondo dell’Arte sensibilizzare ad una inderogabile presa di coscienza.
Il vivo-non-vivo. Il corpo-non-corpo
di Maria Micozzi
La tensione senza oggetto
Il corpo è la forma che raccoglie il senso e la domanda,’ è la matrice che traccia i contorni e i confini della mente : la percezione dell’emozione vibra nel corpo prima che se ne abbia coscienza e si porta dietro tracce di esperienze antiche senza memoria, impressioni che creano immagini, immagini che diventano idee; il corpo vivo è azione nella forma e le cose esperite ne prendono struttura. Nel nascere è lo sfregamento del corpo del bambino col corpo della madre che farà da matrice sensoriale agli stessi confini dell’Io.
Dalla sensazione più arcaica alle congruenze del pensiero più astratto, ogni forma nasce dal corpo che si fa paradigma dello stesso pensiero e della formazione dei concetti astratti seguendone gli aspetti di regolarità.
È Il corpo vivo, integro, a farsi linguaggio e segno; i tatuaggi e le cicatrici rituali ne sono la liturgia, il corpo si fa sacerdote di se stesso esorcizzando la paura della ferita che ne rompe la sacralità disperdendo l’anima e la vita.
La morte è il disordine che corrompe l’ordine, è il Chaos che cancella le forme.
Il corona-virus riporta il corpo allo sguardo del non conoscibile ai misteri della natura troppo potente, alla fragilità di un animale troppo addomesticato, alle esperienze troppo arcaiche per essere riconosciute e troppo rimosse per non implicare pesanti sofferenze interiori.
Siamo a confronto con un nemico che la mente non legge e i sensi non riconoscono, un corpo-non-corpo, un vivo-non-vivo che minaccia l’integrità del corpo per rubarne il mistero vitale.
Il corpo ha paura
La paura è una risorsa naturale della specie volta ad attenzionare il soggetto su uno stimolo di allerta, un cambiamento in atto. È un processo cognitivo dove l’emozione entra per prima nel rispondere allo stimolo, per predisporre il soggetto alla risposta, mentre la razionalità analizza il contenuto ed elabora la reazione che consiste nella relazione tra emozione-fatto-ragione. È l’emozione a predisporre il soggetto alla risposta più adeguata. Il ragionamento considera e analizza il fatto e l’interazione cognitivo-emotiva trova la soluzione.
Ma quando il fatto è percepito come insostenibile, la ragione si sente incapace di risposta e l’emozione perde la funzione di allerta e la capacità cognitiva, diventando pura angoscia. L’Io cerca di difendersi cercando una ragione sostitutiva che la mente possa accettare: A questo punto il pericolo può essere banalizzato o completamente rimosso. Sta succedendo. Ciò che il corona virus ha riproposto, oggi, è il senso del mistero nella forma arcaica del Chaos, la terribilità della natura primigenia. I comportamenti non responsabili da parte del pubblico non vengono colti nella loro realtà psicologica. Salta la conoscenza del contesto che permette l’adattamento e la sopravvivenza.
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